critica
GIOVANNI BIANCHI
(trascrizione della conferenza “LUIGINA DE GRANDIS E VALERIA RAMBELLI. DUE ARTISTE A VENEZIA” tenuta il 13 aprile 2022 presso Palazzo Corner Mocenigo a Venezia in occasione della mostra “INTRECCI D’ARTE E D’AFFETTI”)
Come premessa vale sottolineare che Valeria Rambelli fa il suo esordio artistico nel 1939, in pieno Fascismo, in un momento in cui la politica delle arti è promossa dal regime Fascista.
Quindi si serve delle occasioni espositive che le vengono concesse per emergere, muovendosi però all’interno di un contesto politico che non vedeva di buon occhio la presenza della donna nell’arte. Vedremo per esempio come in occasione della sua partecipazione ad un premio importante quale il Premio Cremona, dove riceverà un significativo riconoscimento, il suo nome verrà declinato al maschile diventando “Valerio”, per non sottolineare il fatto che era una donna a vincere un premio in una esposizione prettamente fascista, promossa da Farinacci.
Luigina De Grandis invece studia all’Accademia di Belle Arti di Venezia ed esordisce nell’immediato dopoguerra in un clima completamente diverso che contraddistingue la città lagunare. La città è in fermento, ci sono tantissime mostre, tantissime attività e ci sono più possibilità di emergere per una donna, che può far conto anche sulla FIDAPA che, fondata nel 1952, promuove fin da subito a Venezia le artiste sia a livello locale, che nazionale ed internazionale, intessendo rapporti con istituzioni quali l’Opera Bevilacqua La Masa e l’Istituto Veneto di Lettere Scienze ed Arti.
Luigina De Grandis promuoverà lei stessa nuove mostre e premi all’interno della FIDAPA per sostenere la diffusione dell’arte al femminile.
Risulta interessante, velocemente, considerare il ruolo della donna nel sistema dell’arte a Venezia.
La Biennale di Venezia, che inizia la sua attività nel 1895, documenta una presenza femminile all’interno del Direttorio soltanto a partire dal 1928: la prima donna che ricopre un ruolo importante nella gestione della Biennale è Margherita Sarfatti. Ci troviamo in un periodo di transizione, nel 1928 Antonio Maraini diventa Direttore della Biennale e due anni più tardi nel 1930 la Biennale passerà da una gestione comunale ad una gestione statale diventando la mostra d’arte più importante a livello nazionale.
Margherita Sarfatti sarà anche nella Giuria di premiazione nel 1930 e per poi collaborare come consulente nel 1932.
Si dovrà aspettare molto tempo per vedere una donna dirigere la Biennale: nel 2005 Maria de Corral e Rosa Martinez sono le prime curatrici della Biennale. Tra pochi giorni inaugurerà la Biennale curata da Cecilia Alemani che vedrà, per la prima volta, la predominanza di artiste donne rispetto agli artisti di sesso maschile.
La Fondazione Bevilacqua la Masa non segue un percorso molto diverso. Questa inizia ad organizzare dal 1908 mostre sotto la direzione di Nino Barbantini presso Ca’ Pesaro, fino al 1925, e bisogna giungere fino al 1996 per trovare la prima Direttrice: Chiara Bertola.
Per quanto riguarda invece le galleriste la prima, a Venezia è Uccia Zamberlan che prende in gestione nel ‘56 la Galleria Santo Stefano da Giorgio Zamberlan, mentre nel 1962 Fiamma Vigo arriva a Venezia e apre la Galleria Numero con sedi già a Firenze, Prato, Roma, Milano.
La prima donna storica dell’arte che si occupa di critica a Venezia è Anna Palluchini che farà anch’essa parte della Fidapa, e sarà la voce critica femminile più importante del secondo dopoguerra in Italia, pubblicando i suoi testi su importanti testate.
VALERIA RAMBELLI
Ciò premesso, iniziamo a prendere in considerazione il lavoro di Valeria Rambelli.
Valeria nasce a Novara nel 1915 e muore a Piombino Dese nel 2008. Molto giovane si trasferisce a Venezia e segue un percorso di formazione tradizionale nel senso che frequenta il Liceo Artistico, e poi si iscrive all’Accademia di Belle Arti. Qui segue in particolare i corsi di pittura di Guido Cadorin che le insegnerà moltissimo considerandola una delle sue allieve migliori. Cadorin insegna agli studenti la padronanza profonda delle tecniche pittoriche affinché potessero recuperare e utilizzare nei loro lavori le tecniche antiche quali: la tempera all’uovo e all’olio, l’affresco, imparando anche a farsi i colori da sé. Teneva moltissimo a questa preparazione di carattere prettamente tecnico.
Valeria molto giovane inizia ad avere dei riconoscimenti molto importanti; nel 1939 partecipa al Premio Fadiga, dedicato a Domenico Fadiga, ex docente dell’Accademia, e riservato ad artisti veneziani. Il premio di pittura viene vinto ex-aequo da tre artisti: Bortolo Sacchi, Aldo Bergamini e Valeria Rambelli. Se i primi due erano artisti affermati, Valeria nel 1939 ha soli 24 anni e vince il premio con l’opera “L’abluzione del fanciullo” che viene acquisita dalla collezione dell’Accademia di Belle Arti, per poi passare a Ca’ Pesaro, dove tutt’ora si trova, nei depositi.
Valeria è innamorata della pittura del primo Quattrocento che sarà un termine di confronto continuo e costante per tutta la sua carriera artistica. L’opera si ispira alla tradizione fascista, e al ruolo della donna che doveva essere soprattutto madre ed educatrice e che nella scena viene ritratta mentre legge un libro ad alcuni bambini e tutto intorno avviene una sorta di abluzione del fanciullo dove i soggetti si ispirano chiaramente all’iconografia di Piero della Francesca.
Valeria quindi con questo spirito accademico vince a soli 24 anni uno dei premi più importanti organizzati a Venezia.
Nel 1940 Valeria partecipa al Premio Cremona, che avrà tre edizioni a partire dal 1939, organizzato da Roberto Farinacci con lo scopo di favorire il Fascismo nella pittura italiana. I temi dati agli artisti sono infatti tutti legati alla politica fascista. Alcuni di essi dettati dallo stesso Mussolini: “Ascoltando alla radio il discorso del Duce: stati d’animo creati dal Fascismo”, “La Battaglia del Grano”, “La Gioventù italiana del Littorio”. Si sarebbe dovuta fare anche una quarta edizione nel 1942, dal titolo storico-politico: “Dal sangue la nuova Europa”, ma non venne organizzata.
Parallelamente a questo premio, nel 1939 Bottai dà vita al Premio Bergamo di cui saranno fatte 4 edizioni fino al 1942 che metteranno in luce gli artisti più importanti che emergeranno successivamente nell’immediato dopoguerra, tra cui Renato Guttuso che vi parteciperà con la sua “Crocifissione”. Il premio Bergamo non è in alcun modo legato esplicitamente alla politica fascista e propone temi quali “Paesaggio”, “Una o più figura umane in un’unica composizione”, “Tema libero”.
Valeria Rambelli vince un premio nell’edizione del Premio Cremona del 1940 con l’opera “Il giorno della vincita e la nuova semina”. L’opera faceva riferimento al fatto che chi produceva maggior grano vinceva un premio in denaro o una trebbiatrice. Il riferimento alla nuova semina risuona invece come un augurio ad andare avanti su questa strada.
Ma sul catalogo, come detto, viene riportato il nome “Valerio” Rambelli.
Nel 1941 Elena Bassi, prima Direttrice dell’Accademia di Belle Arti dal ’72 al ‘79, pubblica un testo che doveva tracciare la storia dell’Accademia di Belle Arti. In questo contesto vengono pubblicate alcune immagini delle opere degli allievi più meritevoli e tra questi compare Valeria con l’opera “Dopo il bagno”, affresco del 1940, dove si notano suggestioni di carattere quattrocentesco e pierfrancescano, ma anche influssi di artisti contemporanei quali Cadorin e Guidi, ben presenti ai giovani artisti veneziani del tempo.
Nel 1949, realizza “Riposo”.
Ricordiamo che Valeria Rambelli sarà la prima donna a ricevere uno studio a Palazzo Carminati dall’Opera Bevilacqua La Masa, spazio che occuperà dal 1947 al 1953; contemporaneamente a Valeria ha lo studio a Palazzo Carminati anche Ottone Marabini che dal 1945 era diventato suo marito. Si fece probabilmente un’eccezione in quanto la Fondazione non aveva mai assegnato uno studio ad una donna.
Valeria Rambelli ha quindi anche questo primato.
Nel 1958 la casa-studio dell’ultimo piano di Ca’ Bernardo, dove Valeria e Ottone risiedevano, prende fuoco e i due coniugi si ritrovano improvvisamente senza un luogo dove stare, bruciano i libri, bruciano i lavori e la vita è messa a rischio. Qualche anno dopo, nel 1962, i due lasciano Venezia e si trasferiscono in campagna a Torreselle di Piombino Dese. Tale trasferimento in realtà comporta una scelta di vita completamente diversa. Essi decidono di vivere in campagna, insieme a Paolo Dal Fabbro che accolgono in famiglia, nel vero senso della parola dando una svolta alla loro esistenza: coltivano la terra, allevano animali, curano l’orto e portano avanti uno stile di vita assolutamente rurale; danno così vita ad una comunità aperta molto particolare, nel senso che molti artisti vivevano lì con loro dando origine ad una sorta di cenacolo culturale atto alla divulgazione delle scienze dello spirito, ma anche ad una bottega “medievale”: insegnano la preparazione dei colori, la loro macinazione, le tecniche come l’affresco e altre tecniche legate alla tradizione che avevano appreso dal loro maestro Cadorin. Tradizione e conoscenza delle tecniche e del mestiere che verranno utilizzate dai due anche in seguito, quando assumeranno molti incarichi come restauratori.
Opere in mostra di Valeria Rambelli
Questo particolare stile di vita è evidente in un lavoro del 1961-1962: Ritratto di Ottone. Il contesto rimanda ad un’atmosfera domestica e rurale, lo stile è figurativo e resistente alle avanguardie. Continua la sua ricerca tonale legata anche alla pittura del Quattrocento.
In Festa del Redentore, quasi un non finito, osserviamo una figura centrale in posa melanconica: opera bellissima di grandi dimensioni.
Nel 1951 Valeria vince un premio importante di carattere internazionale: il Premio Bolzano, riservato esclusivamente a pittrici. Da questa data la sua attività espositiva si intensifica e dalla metà degli anni Sessanta in poi continua in modo consistente. È sempre interessata alla figura umana, in particolare quella femminile, e alla resa del paesaggio in chiave quasi fiamminga.
L’opera Oriella è un ritratto di tre quarti di una sua amica, opera dalle suggestioni leonardesche.
Disegno del 1983, ci dimostra come anche in età avanzata, la mano e la preparazione accademica di Valeria, fossero notevoli e assolutamente fresche, ben consolidate soprattutto dal punto di vista segnico.
Vediamo ora quattro opere del 1960 dedicate alle stagioni realizzate da Valeria. È interessante mettere a confronto queste opere con quelle, con lo stesso tema, realizzate da Luigina De Grandis più o meno negli stessi anni e qui esposte all’inizio della mostra. Risulta evidente come le due artiste lavorino in maniera completamente diversa su tematiche analoghe. Valeria si serve della figura, dell’allegoria e del rimando costante alla pittura del Quattrocento: la primavera è una fanciulla che distribuisce i fiori, l’estate è raffigurata con il contadino che raccoglie il grano, la figura dell’autunno è caratterizzata dalle tonalità tipiche della stagione ed infine l’inverno è raffigurato come una figura femminile che si riscalda.
Valeria ha una grande padronanza della tecnica dell’affresco come si può notare in quest’opera realizzata per la famiglia Vianello sulle pareti della loro villa a San Firmiano (Bassano).
Tra le figure ritratte scorgiamo la stessa Veleria e Ottone Marabini.
Altre piccole opere in mostra: “l’Annunciazione” sembra quasi una predella, potremmo definirlo quasi un bozzetto, molto interessante dal punto di vista della ricerca pittorica; due piccole tavole ci testimoniano un’attenzione della Rambelli alla sfera spirituale. Valeria e Ottone erano dei ferventi credenti (pur senza osservare i riti della Chiesa cattolica) ed avevano un concetto di spiritualità estremamente profondo. A Venezia in campo San Polo l’avvocato Francesco Catarino, direttore della rivista mensile di scienze dello spirito “Steinerianum”, teneva degli incontri per gli appassionati della materia incentrati sulla filosofia steineriana; a questi incontri parteciparono inizialmente anche Mario (fratello di ottone Marabini) e Luigina (moglie di Mario), che però non diventarono degli accoliti del gruppo. Differente la passione che Valeria ed Ottone dedicarono alle teorie steineriane, tanto che, una volta fondata la loro scuola a Piombino Dese, i due coniugi terranno loro stessi degli incontri e delle lezioni su questa scienza dello spirito.
San Francesco e Sant’Antonio sono altre due opere di Valeria Rambelli: il primo parla agli uccelli, il secondo ai pesci, ma soprattutto sono due santi che hanno fatto del voto di povertà il punto forte della loro vocazione cristiana. Valeria sceglie questi due santi perché da un certo punto di vista condivide lo stesso loro spirito: aprirsi, accogliere e essere pronti ad aiutare il prossimo.
LUIGINA DE GRANDIS
Passiamo ora a considerare Luigina De Grandis. Come abbiamo visto, la sua storia è completamente diversa sia da un punto di vista della formazione che dell’esordio artistico.
De Grandis arriva a Venezia nel 1945, in un momento di grande e vivace fermento culturale, sono attive la Galleria del Cavallino, La Piccola Galleria di Nonvellier, l’Arco (Centro Giovanile dell’Unità e della Cultura), la Galleria Venezia che poi diventerà la Galleria Sandri e la Galleria San Marco. Dal 1948 ripartono le Biennali d’Arte che riportano sulla città di Venezia un’attenzione di carattere internazionale.
Luigina De Grandis, nasce a Spinimbecco di Villa Bartolomea, minuscolo paesino della Bassa Veronese, da Gaetano De Grandis e Dusolina Rossi. Il padre è un piccolo proprietario terriero, mentre la madre aiuta il marito ed è una donna estremamente religiosa. Ci si trova in una situazione locale, di campagna, una famiglia numerosissima, due fratelli e sette sorelle. L’infanzia è un periodo felice e le fornisce l’opportunità di avere un contatto diretto con la campagna e quindi con la natura, che sarà un elemento preponderante in tutta la sua ricerca artistica.
Luigina nel suo diario si definisce timida ma dimostrerà in seguito di avere un carattere molto forte e deciso. Frequenta le Scuole Magistrali a Legnago e giovanissima deve lasciare la famiglia per andare ad insegnare in Val Badia, periodo che lei ricorda in un diario, raccontando come la visione delle montagne la entusiasmi e la spinga appena possibile ad uscire all’aperto per dipingere.
Il mestiere di insegnante era bene accettato dalla famiglia, soprattutto perché era ben consolidato nella cultura del tempo quel retaggio di origine fascista secondo il quale una donna non poteva svolgere certe attività come quella dell’artista. Nel 1943, a 20 anni, Luigina ha una crisi che la porta a comprendere come la via dell’insegnamento non fosse la via che voleva per sé. Luigina prende quindi la decisione di dedicarsi completamente all’arte e lo comunica alla famiglia la quale fin da subito non vede di buon occhio questa decisione della figlia di avvicinarsi ad un modo ritenuto pericoloso per una donna. Malgrado tutta la famiglia contro, Luigina studia da autodidatta per prendere il diploma al liceo artistico che le avrebbe permesso di iscriversi all’Accademia di Belle Arti.
Nel 1945 quindi arriva da sola a Venezia, supera l’esame e può finalmente iscriversi all’Accademia di Belle Arti. Qui ha come docente di riferimento Bruno Saetti e si impegna fin da subito per ottenere i massimi risultati, a fronte della borsa di studio elargita dall’Accademia. Non a caso Saetti la considera una delle sue allieve più promettenti. Bisogna dire che nel corso della sua attività, Luigina sarà aiutata e appoggiata da molti artisti tra cui Felice Carena e soprattutto Virgilio Guidi, che la riconobbero fin da subito come un’artista di valore.
L’esordio di Luigina avviene con una mostra collettiva di pittrici alle Botteghe d’Arte, organizzata dall’Unione Donne Italiane di Venezia, con la volontà di promuovere la ricerca delle giovani artiste.
La sua prima mostra personale risale al ’47, quando è ancora studentessa dell’Accademia dove si diploma nel ’49. Nel ’52 verrà fondata a Venezia una sezione della FIDAPA (Federazione Italiana Donne Arti Professioni e Affari), che già nel ‘45 aveva visto sorgere le sue prime sezioni in Italia: a Roma, Napoli e Milano. La presidente della Fidapa “veneziana” è Eugenia Mandruzzato, e come vice-presidenti troviamo Anna Pallucchini e Anna Maria Matter. La Fidapa organizza moltissime mostre alla Bevilacqua La Masa, con l’appoggio dell’Istituto Veneto per il Lavoro, e poi dal 1957 anche parecchie esposizioni di carattere internazionale.
Nel 1950 De Grandis espone per la prima volta alla Biennale di Venezia, mentre nel 1951 e 1955 alla Quadriennale di Roma.
Nel ’52 Luigina si iscrive alla FIDAPA e nel ’55 promuove in prima persona il Premio di Pittura “Città di Legnago”, che avrà un successo che continuerà nel tempo fino al 2004.
Entra in contatto con il Sindaco di Legnago, il prof. Limoni, e con Maria Fioroni, direttrice del Museo Fioroni.
L’incontro con Mario Marabini segna un rapporto molto intenso che nel 1953 li condurrà al matrimonio, svoltosi ad Assisi, mentre nel 1954 nascerà la figlia Chiara.
I due si incontrano alla metà degli anni Quaranta, quando Luigina si è appena diplomata, e sarà proprio lei a spingere Mario, tornato dal fronte, a riprendere gli studi artistici e ad appoggiarlo nella sua ricerca artistica.
Opere in mostra di Luigina De Grandis
“Ritratto di mia madre”, metà anni ‘40. Evidente la geometrizzazione delle forme, tipica di Saetti, e dove i temi dominanti sono il paesaggio e la natura.
“Ritratto di mio Padre”, dipinto nel 1949.
“Pietà”, (1949). Certamente una delle opere che colpisce di più, considerata un vero e proprio “saggio” d’arte sacra moderna, realizzata a Spinimbecco nel 1949, usando come modelli la madre e l’amico poeta Tristano Zacchia. L’opera è emblematica del profondo sentimento religioso della pittrice, dai risvolti drammatici, strettamente legato alla sua visione della natura. Il dolore intenso e muto della vecchia madre, il corpo esanime del Cristo, trovano un corrispettivo “spirituale” nella natura spoglia della campagna circostante e soprattutto nell’albero, secco e spezzato, a ridosso delle figure in primo piano; i colori cupi e bruciati accentuano questa visione dai caratteri espressionisti.
“Cimitero”, 1949. “Cimitero” è un dipinto particolarmente caro all’artista che quando tornava a Spinimbecco amava recarsi presso la tomba della sorella Elodia, nel cimitero di Villa Bartolomea, e trovava conforto nel rimanere lì a dipingere nel silenzio e nella tranquillità. A tale proposito leggiamo nelle sue pagine di diario scritte nel dicembre del 1948: “Il primo retaggio è stato il cimitero quel recinto grigio-bianco. […] Le lapidi si ergevano come fantasmi sul grigio del cielo. Tutte forme bianche su quell’atmosfera grigia. Mi è volato quasi tutto un giorno al cimitero. Io so che avrei anche cantato e che tutto è trascorso come un sogno. […] Spettri quelle tombe, ma non paurosi. Grigio quell’ambiente ma non tenebroso. Misterioso il recinto ma legato perfettamente al mistero della vita. – Armonia bianca grigia – Giornata di mistero e di intimità. Ho scavato dentro di me per dipingere e niente ho espresso di accademico o in forma voluta. Non so però valutare il mio lavoro e per quanto mi senta scontenta so che qualcosa ho espresso. Non ho trovato niente di facile. Mai pensiero, mistero e fatica ho sentito tanto come in questo lavoro. É fra i quadri che amo di più.”
Descrizione che corrisponde al dipinto Cimitero vecchio di Villa Bartolomea, dipinto nel 1949, tutto orchestrato sui toni grigi, animato da bianche figure spettrali che esprimono lo stato d’animo della pittrice. A Luigina non interessa il disegno ma esprimere liberamente la risonanza interiore attraverso il colore e tale aspetto la differenzia molto da Valeria Rambelli.
“Figure di giovani” (1952): nella loro impostazione plastica denotano ancora un’influenza del “maestro” Saetti.
“Ritratto di Mario Marabini” (1953): il 1953 è un anno importante anche sul versante degli affetti; infatti il primo di agosto di quell’anno, ad Assisi, Luigina De Grandis si unisce in matrimonio con lo scultore Mario Marabini, conosciuto a Venezia alla fine degli anni quaranta.
Inizia così un sodalizio d’amore e artistico, che vede i due giovani coinvolti in animate discussioni con i loro amici artisti e impegnati nel faticoso tentativo di affermarsi nel vitale panorama artistico veneziano. Di Marabini Luigina apprezza il carattere dolce e quello sguardo malinconico, che rimanda ai suoi trascorsi in guerra, che coglie perfettamente nel ritratto del 1953. Mario aveva avuto un passato molto duro e Luigina seppe “riportarlo in vita” nel vero senso della parola. Purtroppo, nel 1962, a causa di un tragico incidente, Mario viene prematuramente a mancare e Luigina si ritrova ad essere una donna sola, artista, con una figlia da crescere e sostenere.
“Donna incinta” (1954): il matrimonio viene allietato nel settembre del 1954 dalla nascita della figlia Chiara. Il termine della gravidanza, che spaventava non poco Luigina, viene documentato da questo autoritratto, in cui l’artista si rappresenta a figura intera con indosso un’ampia veste rossa, le mani sul ventre e lo sguardo fisso verso lo spettatore. L’espressione del volto non è distesa ma seria e impensierita a sottolineare lo stato di preoccupazione che, come è naturale, accompagna il periodo che precede il parto. Molte artiste hanno abbandonato la propria carriera, una volta diventate madri, aspetto che non riguarderà mai Luigina, che continuerà a portare avanti con impegno entrambe le cose, anche una volta diventata vedova nel 1962.
“Alla Memoria” (1962): si tratta di un dipinto realizzato appena dopo la scomparsa di Mario Marabini, attraverso il quale Luigina vuole celebrare il marito come compagno e artista. Nella composizione ritrae la scultura del marito “Abbandono”, un mazzo di fiori e un elemento non riconosciuto forse un ricordo di un luogo visitato insieme. Il colore dominante è il blu che ci riporta inevitabilmente ad una condizione di malinconia, lontananza e desolazione, caratteristiche tipiche di questo colore.
La natura è sicuramente uno dei temi dominanti nella pittura della De Grandis, la natura come stato d’animo, come possibilità di utilizzare il colore, una natura viva e in continua trasformazione, dinamica, senza prestare troppa attenzione ai minimi particolari del paesaggio, ma piuttosto facendo vibrare e pulsare il suo paesaggio, i luoghi vissuti, a volte dipinti dal vero “en plein air”, altre volte ripresi in studio per rivivere quei momenti particolari. E’ una natura “naturans”, cioè in continua evoluzione.
Tale aspetto è ben evidente nell’opera “Autunno” (1957), dove l’atmosfera della campagna autunnale è evocata da un sapiente e istintivo accostamento di colori, stesi con pennellate ricche e veloci, e dalla muta presenza di tre “salgari” (salici) scuri.
“Il bosco blu” (1964) che traduce in una vera sinfonia data dal tocco di azzurri e blu il paesaggio; l’aspetto musicale in Luigina De Grandis, infatti, sarà sempre molto presente, così come la simbologia dell’albero.
“Quattro stagioni” (1964): ci dà l’immagine delle quattro stagioni, non in maniera figurativo-allegorica come fatto da Valeria Rambelli, ma bensì facendo affidamento sulla musicalità del colore e delle tonalità finalizzate a descrivere uno stato d’animo e una sensazione di luce e colore. La musicalità delle “Quattro Stagioni” di Vivaldi ispira le pennellate e il gesto pittorico di Luigina, che nella descrizione sensoriale dell’inverno si lascia ispirare anche dall’opera del musicista finlandese Sibelius.
“Vibrazioni autunnali in pineta” (Anni ‘60). Luigina è presente alla XXXI Esposizione Biennale Internazionale d’Arte di Venezia (16 giugno – 7 ottobre 1962) nel Padiglione Venezia, riservato alle arti decorative, dove espone un mosaico dal titolo “Vibrazioni autunnali in pineta”. Nello stesso anno partecipa alla biennale anche Mario Marabini con un altro mosaico fatto su un cartone di Luigina De Grandis.
L’opera musiva presentata dalla De Grandis, totalmente astratta, è caratterizzata da cromie vivaci ed intense intonate sul rosso ad evocare le atmosfere autunnali; le tessere rifrangendo la luce smaterializzano la superficie facendola vibrare nello spazio suscitando così nello spettatore una forte emozione. Esso costituisce l’unico esempio di arte musiva dell’artista.
“Albero arso” (1967). L’albero costituisce uno tra i temi più amati dall’artista.
Esso ha preso nella sua pittura, per così dire, il posto dell’uomo, ed ella si sente attratta a dipingerlo considerandolo non soltanto quale elemento del paesaggio, ma quale creatura viva presa a sé, espressione vitale e trionfante della natura nel suo perenne divenire. Buona parte dell’opera di Luigina De Grandis è infatti ispirata agli alberi.
“Foglia”. Verso la fine degli anni sessanta un altro tema si impone nella ricerca della De Grandis: la foglia. Questa, intesa come simbolo di vita, ma anche di caducità, viene isolata nello spazio della tela e ne diviene la protagonista assoluta. All’artista interessa la forma della foglia, dai bordi lineari e tondeggianti, che viene semplificata e resa con estrema sintesi. La foglia, che nel regno vegetale è simbolo del carattere ciclico di ogni esistenza (nascita, maturazione, morte), nell’immaginario simbolico della pittrice subisce infinite metamorfosi divenendo volto, ali, germoglio e seme (origine della vita).
“Foglie” (1967) affronta ancora il tema delle foglie, giocando sulle trasparenze che fungerà da “bozzetto” per la creazione di una delle sue opere più famose.
Lo studio attento e profondo della struttura della foglia diviene occasione per ricerche e sperimentazioni che non sono solo pittoriche. Infatti nel 1970 ritroviamo il suo nome tra gli espositori alla XXXV Esposizione Biennale Internazionale d’Arte, dove, nel Padiglione Venezia riservato alle arti decorative, presenta il suo “Elemento policromo in vetro”, opera che viene anche riprodotta in Catalogo. Il misterioso “elemento”, recentemente restaurato, è in realtà una suggestiva trasposizione in vetro di una foglia che, grazie alle trasparenze del vetro, utilizzato nella sua declinazione grezza e materica, si riempie di luce e vibra nello spazio. La foglia di un colore dorato sembra sospesa nell’aria, incastonata in un “blocco” solido di luce. Quest’opera si distingue da quelle realizzate nel 1972 che hanno sempre per soggetto delle foglie. Queste si presentano come immagini stilizzate composte da diverse sottili lastre di vetro policromo, unite tra loro da giunti in piombo. Montate su appositi piedistalli risultano sospese nello spazio presentandosi come moderne vetrate di fantastiche cattedrali gotiche, capaci di dare colore alla luce.
Il tema della foglia si ripresenta anche nel campo della arti applicate nei “foulard” esposti in mostra, come motivo decorativo di opere che non nascono quindi come pittoriche, ma bensì come veri e propri oggetti decorativi da indossare.
Luigina De Grandis, a differenza di Valeria Rambelli, ha dedicato buona parte della sua vita alla didattica; inizia ad insegnare nel 1964 all’Istituto d’Arte Pietro Selvatico di Padova, dove insegna fino al 1974, poi dal ’75 all’83 si sposta a Venezia, presso l’Istituto Statale d’Arte, vicino ai Carmini.
Nell’84 dà alle stampe un testo molto importante ossia il manuale “Teoria e uso del colore”, edito da Mondadori e di cui al piano terra troviamo esposte alcune tavole eseguite dai suoi allievi per questo volume, con la volontà di approfondire questo suo amore per il colore da una dimensione pittorica ad una dimensione scientifico-percettiva, aiutata dal prof. Osvaldo Da Pos, già docente di psicologia della percezione presso l’Università di Padova.
L’uscita di questo volume ha un successo che la stessa Luigina probabilmente nemmeno si aspettava, tant’è che all’epoca cedette, forse poi pentendosene, tutti i diritti alla casa editrice.
Viene edito in 7 edizioni fino al 2009, tradotto in inglese, spagnolo ed ebbe una grandissima diffusione negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Spagna.
Con le tavole eseguite per il volume Luigina De Grandis partecipa alla Biennale di Venezia del 1986, nella sezione curata da Osvaldo Da Pos e in quell’occasione si forma il Gruppo Colore 1 che raccoglie gli ex studenti della De Grandis che hanno contribuito alla nascita questo libro.
Elemento ricorrente nella poetica della De Grandis è l’attenzione per la musica, come si è messo in evidenza precedentemente analizzando il ciclo delle Quattro Stagioni, ispirato ai brani di Vivaldi e Sibelius. L’amore per la musica torna anche nei preziosi lavori qui esposti, risalenti agli anni Novanta e rifacentesi a brani quali la “Messa da Requiem” di Verdi, “La Pastorale” di Beethoven, le cui forme richiamano quelle delle vetrate gotiche; Luigina si interessa anche al teatro e al suono della parola recitata con riferimenti a Brecht e alla sua “Santa Giovanna dei Macelli” e a “Rosmersholm” di Ibsen. In questi lavori l’artista utilizza e sperimenta la tecnica del collage.
Verso la fine degli anni Ottanta emergono nuove visioni e tematiche legate alla sfera spirituale; tra queste i “Varchi” e gli “Archi” che ci danno l’idea di una progressione nello spazio e riprendendo il tema della soglia come elemento simbolico che allude all’inizio di un percorso che bisogna seguire per arrivare verso la luce, percorso qui suggerito dall’allestimento dell’architetto Fabrizio Berger.
Sempre sul tema della spiritualità si presenta negli anni Novanta il tema delle “Clessidre”, che la De Grandis spiega con le seguenti parole riprese direttamente dai suoi appunti: “In ultimo le cosiddette clessidre che penso siano l’immagine del tempo che scaturisce dal mistero estremo dell’eternità”.
Immagine simbolica di un tempo che passa in modo lento, costante e inesorabile, la clessidra corrisponde al ciclo umano, ma esprime anche una possibilità di rovesciamento del tempo, un ritorno alle origini.
La sua forma caratterizzata da due comparti collegati da un foro sottilissimo mostra l’analogia e l’interscambiabilità tra alto e basso giacché per farla funzionare bisogna rovesciarla continuamente, in essa vuoto e pieno si avvicendano, vi è un passaggio continuo del superiore all’inferiore cioè dal celeste al terreno e viceversa. Infatti la clessidra per gli alchimisti rappresentava l’equilibrio terrestre, dove la parte superiore di essa raffigurava il cielo e la parte inferiore la terra: l’energia fluiva dal cielo alla terra in un ciclo infinito, e rappresentava anche l’equilibrio tra la vita mortale e quella spirituale. E così sembra intenderla anche la De Grandis che intitola un suo dipinto Clessidra cosmica (1992) dove con poche linee, incise sulla superficie pittorica, e delicate cromie evoca l’immagine delle due ampolle comunicanti fra loro mediante un sottile orifizio attraverso cui fluisce la sabbia.
È oltremodo significativo che l’artista, ormai settantenne, si interroghi sul tempo che vola (tempus fugit) rendendosi conto che nella vita terrena non vi è modo di fermarlo.
L’artista si spegne a Venezia il 23 aprile del 2003.
Nel suo studio viene trovato sul cavalletto l’ultimo lavoro a cui stava lavorando.
Si tratta di un’opera astratta, intitolata “L’insondabile” caratterizzata da una superficie completamente nera, indicativa di una totale rinuncia al colore, forse un presagio di morte. Il nero è animato da leggeri tocchi di bianco che tracciano anche la forma di un cerchio attraversato da una linea bianca tremolante che sembra indicare un incerto percorso verso l’infinito, al di là delle contingenze temporali e materiali. Riprendendo il pensiero di Kandinskij, la scelta del bianco e del nero possono avvicinare quest’opera al silenzio, con il bianco che ha un valore positivo come pausa all’interno di un brano musicale che poi può continuare, mentre il nero come valore negativo che si presenta come una pausa definitiva, un azzeramento. Tra l’altro, come ci ricorda Giovanni Soccol, anche Valeria Rambelli andava sostenendo che “a notte più nera, alba più splendente” e, in relazione a quest’ultima opera, possiamo solo immaginare la luce che seguirà al nero della morte.
(da Luigina de Grandis – 1923-2003, Ed. MArcianum Press, Venezia, 2015)
[…]
A sottolineare il suo “spirito” attivo e pieno di idee non mancano anche iniziative di carattere organizzativo come il premio Città di Legnago che nasce nel 1955 da una proposta della pittrice sostenuta dalla sezione veneziana della FIDAPA (Federazione Italiana Donne Arti Professioni Affari).
[…]
Tramite l’intensità espressiva del colore l’artista realizza sintesi cromatiche del paesaggio dove i particolari hanno perso ogni ragione d’essere. E’ l’orchestrazione e l’accostamento dei colori, stesi con pennellate larghe e dinamiche, a evocare una visione animistica della natura. La rappresentazione della campagna diviene così un pretesto per proporre una personale interpretazione della natura; una natura che risiede nella sua memoria, legata ai luoghi visti e “vissuti”, e che si manifesta nella realizzazione di paesaggi intimi ed emozionanti, vibranti di luce.
[…]
In un testo di carattere autobiografico Luigina, parlando in prima persona, sottolinea come “le foglie a un certo punto sono diventate per me come l’immagine o la metafora della fragilità e della caducità dell’esistenza singola, mentre nella pianta scorreva perenne e sempre si rinnovava la linfa della vita. Non è che io mi sia proposta queste cose come dei temi prefissati; sono nati da sè, in quell’unico discorso che io so fare, che è la pittura”.
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Negli ultimi anni di attività inevitabilmente l’artista riduce il numero di mostre ma non smette certo di dipingere e nella sua ricerca si impongono alcuni nuovi temi tra cui quello delle Clessidre.
“In ultimo le cosiddette clessidre che penso siano l’immagine del tempo che scaturisce dal mistero estremo dell’eternità“. (appunto per un testo autobiografico databile intorno ai primi anni ’90 – Archivio de Grandis Marabini)
Immagine simbolica di un tempo che passa in modo lento, costante e inesorabile, la clessidra corrisponde nel ciclo umano alla morte ma esprime anche una possibilità di rovesciamento del tempo, un ritorno alle origini. La sua forma caratterizzata da due comparti collegati da un foro sottilissimo mostra l’analogia e l’interscambiabilità tra alto e basso, giacchè per farla funzionare bisogna rovesciarla continuamente, in essa vuoto e pieno si avvicendano, vi è un passaggio continuo del superiore all’inferiore, cioè dal celeste al terreno e viceversa. Infatti la clessidra per gli alchimisti rappresentava l’equilibrio terrestre, dove la parte superiore di essa raffigurava il cielo e la parte inferiore la terra: l’energia fluiva dal cielo alla terra in un ciclo infinito, e rappresentava anche l’equilibrio tra la vita mortale e quella spirituale. E così sembrava intenderla anche la de Grandis che intitola un suo dipinto Clessidra cosmica (1992)
OSVALDO DA POS
(aggiornamento del Workshop “L’UTILITA’ DI METTERE IN ORDINE I COLORI” tenuta il 28 aprile 2022 presso Palazzo Corner Mocenigo a Venezia in occasione della mostra “INTRECCI D’ARTE E D’AFFETTI”)
“L’intera trattazione del workshop si basa su aspetti biologici della visione, ossia quelli comuni a tutti gli esseri umani, mentre gli aspetti culturali possono differenziare notevolmente persone e gruppi di persone.
Gli aspetti ‘biologici’ non dipendono dalla cultura e il loro contenuto può essere compreso da tutti, in qualunque parte del mondo, senza alcun tipo di speciale preparazione”. (Osvaldo Da Pos)
Leggi l’intervento originale del Prof. Osvaldo Da Pos:
Testi sui sistemi Munsell e NCS per produrre effetti di Trasparenza (O. Da Pos)
Produrre figure trasparenti (O. Da Pos)
critica
FELICE CARENA
Venezia, 1958
(da De Grandis, Ed. Contemporarte, 1966)
Luigina de Grandis secondo il mio modo di sentire e vedere, è tra le poche pittrici e potrei dire anche tra i pochi pittori che ancora vedono nella realtà e nella sua infinita poesia e infinito modo di interpretarla e sanno guardarla questa realtà con amore e purezza di cuore.
La de Grandis interpreta con semplicità tutte le cose che ama, dall’uomo agli alberi, al cielo, alle cose tutte dell’universo, ed è per questa sua amorosa attenzione e quasi primitiva semplicità ch’io da anni mi interesso di Lei e seguo lo svolgersi del suo lavoro.
DIEGO VALERI
Venezia, 20 aprile 1966
(da De Grandis, Ed. Contemporarte, 1966)
Il mondo pittorico di Luigina de Grandis è, a mio parere, un mondo vero, perchè nasce da un sentimento vero prendendo poi forma da un travaglio di fantasia non meno spontaneo che lucidamente cosciente e razionalizzato.
Luigina de Grandis ha, come ogni vero artista, i suoi temi prediletti e caratteristici; ma non se ne fa prigioniera.
Ama, su tutto, gli alberi, le piante, i fiori: pioppeti esili, velati appena dal tenero piumaggio primaverile; nude vigne contorte e ripiegate su se stesse, che inscrivono strane lettere oscure sullo sfondo pallido del cielo; fiori bianchissimi, cerei sbocciati da cespi di un cupo verde metallico; e poi vaghi incroci e intrecci di segni luminosi, vibranti, dietro i quali le forme si celano e sembrano dissolversi, al sorgere del sole, al tramontare del sole: splendidi giochi cromatici, sciolti da ogni servitù “oggettiva”, ma disciplinati a un rigoroso ordine interno, a una superiore legge di armonia.
Infine c’è anche la figura umana; e qui è facile constatare che Luigina de Grandis opera con lo stesso procedimento, cioè con lo stesso amore, che le apre la via alla conquista del mondo vegetale e delle sue atmosfere.
Bisogna rilevare per altro che la figura, per lei, è sostanzialmente il ritratto (a parte alcune notevolissime composizioni sacre); e che i ritratti da lei dipinti nel corso di 20 anni (o, più precisamente, i migliori) sono tutti di persone care, di persone del suo sangue. Credo di non sbagliarmi indicando in ciò una riprova del suo profondo e affettuoso sentire, di quella sua “gravitè de coeur” che è l’anima stessa della sua pittura di “paesaggio”. Un solo “genere” mi pare non sia nelle grazie di Luigina de Grandis: la “natura morta” propriamente detta: l’oggetto-oggetto. E si capisce, dato il suo temperamento, dato che è una creatura tutta viva, così com’è tutta vera.
VIRGILIO GUIDI
Venezia, 1964
(da De Grandis, Ed. Contemporarte, 1966)
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D’altronde è innegabile che pur essendo la natura al fondamento della sua personalità, da questa ne trae il senso, lo spirito, che poi sono la stessa cosa e non è mai stata Ella schiava dell’oggetto neanche quando l’oggetto le era necessario. A tale personalità occorre che la sensazione e la mente siano d’accordo; ma questo non sarebbe se la forza del sentimento non si muovesse spiegata e convinta e capace di trovare gli elementi espressivi. Avviene che per via di essi un contenuto chiaro e segreto ad un tempo è nelle sue opere, a volte lirico, a volte drammatico, semplicemente e dignitosamente umano.
E’ come se tutte le cose dette fossero parti di un tutto, il tutto è qui la poesia. Infatti nella poesia, non preconcetta, sfociano le sue opere. Gli elementi di natura sono riportati quasi ad una vita originaria, distinti e legati, che è segreto a tutte le cose viventi.
E sarebbe caos se la geometria, che è la costruzione segreta del mondo non intervenisse a ordinare quegli elementi nello spirito di seconda nuova creazione. Ecco, dunque, esperienza di natura, coscienza geometrica delle cose, intervento dell’anima a muoverle e soluzione poetica.
Questa sua posizione è oggi molto singolare, in tempi in cui la natura si nega per incapacità di leggerla in novità di spirito.
Venezia, 1976
(Cartella di Opere Grafiche; presentazione autografa)
[…]
La de Grandis con sapienza traspone sulla carta la sua pittura e queste serigrafie vanno considerate opere pittoriche. Ella abolisce la bidimensionalità della serigrafia e/o della litografia e va in profondità.
Le immagini hanno una legge geometrica che si rivela nell’ovale in cui racchiude gli elementi della sua fantasia.
In questa cartella la pittrice si è incontrata con uno dei più semplici esempi della natura, quale è una foglia, e non ha rappresentato una foglia naturalistica, nè avrebbe rappresentato naturalisticamente un fogliame intero. E’ chiaro che, a ben vedere, l’immagine-foglia, chiusa in una forma ovoidale, ha intenzione di rivelarsi con ben altre necessità.
La pittrice cerca di risalire alla ragione delle cose e ai principi che sono al loro fondamento: nei quali principi interviene la geometria, il principio di evoluzione, il succedersi storico e lo stretto legame fra tutte le cose esistenti.
Obbediscono, queste forme, al perimetro dell’immagine che le accoglie. Il colore è sobrio, mai schematico, sensibile come quello della sua pittura.
TONI TONIATO
Venezia, 1966
(da De Grandis, Ed. Contemporarte, 1966)
[…]
Verso il ’54-’55 la pittrice Luigina de Grandis giunge a una concezione più libera, senza però cadere in una evasione dall’oggetto; la natura è ancora per lei il polo necessario di un contatto più approfondito. Ora a lai interessa fermare soprattutto l’emozione attraverso lo stesso processo dell’atto pittorico, configurare cioè quella emozione in una immagine più pura, ma non meno pregnante di motivazioni umane, di esperienze esistenziali. Nella poetica del “neonaturalismo” questa pittrice ha un posto di rilievo che ci dimostra d’altra parte la continuità di una “tradizione” veneta, le origini quindi di una visione della natura, sensibile alle aperture del linguaggio moderno, ma fedele comunque alle ragioni più profonde di un patrimonio culturale originario, ai motivi più veri della propria ispirazione.
Sino al ’60 la sua pittura è pertanto una ricerca di approfondimento, in una continua partecipazione esistenziale, al sentimento della natura espresso in un urgente panico di trasalimenti luminosi, di moti tonali, di forme convulse, fino a giungere ad una sintesi del suo discorso pittorico, alla conquista poetica della realtà. E’ questa una conquista che appartiene al destino dell’artista e la pittura della de Grandis ne è oggi una esemplare testimonianza.
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NICO STRINGA
(da La Pittura nel Veneto – Il Novecento, Dizionario degli Artisti, Ed. Mondadori Electa, Verona, 2009)
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Verso la fine degli anni ’50 nella pittura della de Grandis cominciano a farsi strada quelle forme curve, quasi ellittiche, che andranno a caratterizzare le opere degli anni successivi. Queste sono le fondamenta su cui poggiano i futuri cicli tematici della sua ricerca pittorica, legata ai soggetti delle “foglie” e dei “germogli”. Chiare sperimentazioni rivolte all’indagine del segno e del colore, che divengono liriche ed esplicite allusioni alla nascita, metafore della vita stessa. Questo ciclo, presentato anche nella sezione “arte decorativa” della Biennale di Venezia del 1970, e realizzato da elementi policromi in vetro, si conclude, verso la metà degli anni ’70, con il tema dedicato agli “autunni”, ultima allegoria sull’esistenza. Quest’ultima fase abbandona i precedenti toni luminosi, per soffocarli sotto il peso del colore sordo di questa stagione.
[…]
La sua lunga esperienza come insegnante, iniziata a Padova e proseguita a Venezia, la portò ad un periodo di profonda e meditata riflessione per quanto riguarda l’indagine di forme e colori, tanto da realizzare, nel 1984, il volume intitolato Teoria e uso del colore.
A sottolineare l’importanza di queste sue indagini, venne invitata ad allestire, nella sezione “Colore, Arte e Scienza” della Biennale di Venezia, tenutasi nel 1986, una esposizione basata appunto sui temi trattati nel libro.
ARMANDO PIZZINATO
Venezia, maggio 1966
(da De Grandis, Ed. Contemporarte, 1966)
La de Grandis, educata alla scuola della Natura, la “sua” campagna se l’è portata a Venezia dentro di sè e quella sua campagna riesce sempre a farla rivivere sulla tela con la stessa tenacia e lo stesso amore del contadino che ad ogni stagione sa cavarne frutto diverso. Dalle ricordate stagioni, dalla Natura, la de Grandis sa trarre poeticamente stati d’animo sereni e teneri, struggenti come erba e tristi di gelidi alberi invernali crocefissi.
[…]
Ne fossi capace, per la de Grandis vorrei scrivere una pagina lirica che fosse l’equivalente della sua opera, una pagina sulla natura, sulla forza generatrice della terra, sulla bellezza generosa dei verdi, gialli, rossi e viola dei suoi alberi, sugli innumerevoli cieli sempre diversi, sulla loro luce.
PAOLO RIZZI
1997
(da Luigina De Grandis, Dipinti dal 1947 al 1997, Ed. Associazione Culturale “S. Marco”, Quarto D’Altino, settembre 1997)
Tra allusività naturale e sensibilismo materico
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Dopo i ritratti giovanili si passa agli anni ’60: anni in cui il gusto internazionale scaricava anche su Venezia il peso di un Informale nelle sue varie componenti di gesto, segno o materia. Luigina non sceglie nè l’eccitazione parossistica di Vedova nè la dilatazione lirica di Santomaso. Semmai resta vicina al colore sinfonico del vecchio maestro Saetti, con qualche pensiero anche alla ricerca di essenzialità luminosa di Guidi. Ma i riferimenti sarebbero incongrui. Il “Grande ramo” e l'”Albero”, entrambi del 1967, vivono d’una vita propria, in cui prepotente emerge nel fulgore del colore l’allusività naturale.
Così, in quello che è il ciclo più conosciuto dell’artista, le cosiddette “Foglie”, intorno al 1969-70, la natura d’un canto si fa veicolo d’una bellezza dolce e insieme stranita, preziosa come un mosaico bizantino e insieme densa come un frutto maturo; e d’altro canto trasmette proprio un senso di caducità delle cose, di trasmutazione, di profonda e severa esistenzialità. Le “Foglie” diventano, cioè, metafore. Ad esse si aggiungono, con gli anni, gli “Autunni” che ne sono la prosecuzione: addirittura la fine di un discorso lucreziano, georgico e nel contempo cosmico. C’è quasi un’estrema sofferenza: l’oro marcisce soffocato dalle foglie secche che si radunano malinconicamente. Dalla vitalità del seme al funereo presagio della morte.
[…]
Tornano i volti umani: ma non più come ritratti, bensì come ” Teste”, il cui vuoto centrale, così rarefatto, deve essere riempito dallo stesso osservatore. Non siamo lontani dalle audaci sperimentazioni dell’ultimo Arturo Martini, quando tentava, appunto, di “scolpire l’invisibile”, cioè l’anima. La luce da questo momento diventa per la pittrice il centro dell’interesse. Le “memorie” si accumulano: e sono ora gioiose, primaverili, sciolte in un sinfonismo cromatico di tipo musicale, ora invece meste, pensierose, sofferte. Prima le “Porte”, poi i “Varchi” alludono al passaggio verso qualcosa che è al di là: spiragli di trascendenza, simbologie di fronte alle quali si rimane col cuore sospeso. La pittura si è fatta più sgranata, opaca, filtrata attraverso la polvere sottile di marmo o di gesso, quasi come un affresco. Essa assorbe la luce in modo uniforme, dando la sensazione di una lontananza irreale, d’un silenzio ininterrotto.
Cos’ per le successive “Clessidre” eseguite negli anni9 tra il 1992 e il 1995, ancor più rarefatte, appena solcate dai segni alchemici che le avvolgono di mistero, e così per i recentissimi “Muri”, dove l’artista quasi riflette se stessa, il suo sguardo attonito aperto al mondo. Come accadeva a Leonardo con le sue “muffe” e “ceneri”, Luigina de Grandis cerca di cogliere dalle superfici scrostate e granulose una visione fantastica: lo spiraglio per una intuizione dell’infinito e dell’eterno.
SILVIO BRANZI
Venezia, 1960
(da De Grandis, Ed. Contemporarte, 1966)
[…]
La natura non ha mai cessato per altro di ispirarla, ma sfrondata d’ogni casualità, d’ogni elemento contingente, per coglierne via via una certezza non vaga nè provvisoria, quasi un riverbero sentimentale, tramite un colore che nella delicata precisione delle stesure contrapposte cela una forza di istintiva e insieme conquistata esperienza.
Ed è, appunto, quel che oggi si vede nei dipinti della de Grandis, così felicemente evocativi d’un fantasma poetico che non distrugge la realtà nell’astrazione nè compromette questa in quella, ma si chiarisce limpido, rivelandosi quale una vera testimonianza dello spirito.
ASSUNTA CUOZZO
(da Luigina de Grandis – Origini del suo sentire, Grafiche Marchesini, Angiari (VR), 2005)
[…]
Nel 2000, per i 250 anni dalla morte di Antonio Salieri, è invitata ad allestire una mostra per il famoso musicista, presso il Teatro a lui dedicato a Legnago (Vr). Qui ha esposto non solo i suoi quadri, che interpretano e rendono visibili le opere musicali dei grandi compositori fra i quali lo stesso Salieri, ed in quest’occasione ha anche regalato alla città uno stemma realizzato in pittura, dedicato al musicista legnaghese. A questo proposito scrive: “Nello stemma da me dedicato ad Antonio Salieri ho voluto sintetizzare nel linguaggio emblematico consentito al segno e al colore, l’interezza dell’uomo: nel fulgore della banda centrale l’eminenza del talento artistico, nei grigi luminosi delle bande laterali la serena fermezza delle qualità morali di un uomo in cui la fama e gli onori non offuscarono le naturali inclinazioni all’equità, alla benevolenza, al generoso soccorso verso i meritevoli non sostenuti da adeguati mezzi”.
ELDA BORDIN
1966
(da De Grandis, Ed. Contemporarte, 1966)
[…]
Notizie più precise e più ricche sul “curriculum” della nostra Pittrice non sono difficili da reperire, per chi voglia saperne di più: presso gli archivi storici della Biennale di Venezia giace un’ampia documentazione sulla sua attività e in tutte le gallerie d’arte, in cui sono state esposte le sue opere; ma nessun archivio, nessun ufficio può darci la sua biografia intima, quella dei sentimenti, delle emozioni, degli slanci creativi, che possiamo intuire solo dalle opere perchè l’artista, già così restia a parlare dei suoi successi, è estremamente riservata su tutto ciò che riguarda la vita dello spirito. Dalle sue opere possiamo cogliere il “leitmotiv” che le anima e le rinnova continuamente un grande amore per la natura, per quella campagna che l’ha vista nascere e crescere, che l’ha affascinata fin dall’infanzia e che la vita cittadina non ha cancellato dal suo animo.
FRANCESCO OCCHI
(da Luigina de Grandis – Origini del suo sentire, Grafiche Marchesini, Angiari (VR), 2005)
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Questa “ragazzina di campagna”, come venne definita da vari critici d’arte, non ha mai smesso di farsi conoscere, di andare avanti, espressione di un grande talento unito da una superba finezza e sensibilità intellettuale.
Oggi Luigina de Grandis se ne è andata ma a parlarci di Lei rimangono le sue opere esposte non solo nei più importanti musei del mondo ma anche in molte nostre case, e un libro, quel testo “Teoria e uso del colore”, che è stato e sarà di insegnamento per molti giovani studiosi.
ALDO PERO
(da TRE ARTISTE A VENEZIA, Palazzo Pisani-Revedin, Venezia, Futures Art Gallery – Novembre 2021)
Catalogo edito in occasione della mostra, a cura di Aldo Pero, © Edizioni Arte del XXI Secolo
MOVIMENTO ARTE DEL XXI SECOLO
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